di Achille Nobiloni
Qual è la differenza tra “investire in Italia” e comprarsi un’azienda italiana? C’è chi sostiene che tra le due cose non vi sia differenza e il fatto che uno straniero compri un’azienda italiana vada considerato come un risultato positivo degli sforzi per attrarre gli investitori stranieri in Italia.
Secondo me invece la differenza c’è, eccome:
chi “investe” in Italia crede nel nostro Paese e nelle nostre competenze (tutto
sta a vedere quanti e quali sono quelli che ancora lo fanno), viene quindi da
noi, compra un terreno, ci costruisce sopra una fabbrica, magari una succursale
dell’industria che gestisce in patria, assume gente e crea una nuova attività
produttiva. Chi invece compra una azienda in Italia non sempre è animato dagli
stessi intenti e a volte può anzi essere mosso da un fine predatorio: viene in
Italia, si compra un’azienda locale, magari complementare all’attività
principale che egli svolge in patria, inserisce l’azienda italiana nel proprio circuito
internazionale sfruttando sinergie e razionalizzazioni a discapito della stessa
azienda italiana quando non addirittura smembrandola con la classica tecnica
dello “spezzatino” o prosciugandone le risorse.
Esemplare a tale riguardo è quanto riportava
l’articolo qui sotto del Fatto Quotidiano
del 6 novembre scorso.
Certo questo non vuol dire che quella
descritta qui sopra sia la regola ma certo è un rischio che si corre a vendere
le nostre aziende agli stranieri, specialmente a quelli che in barba a ogni
principio di reciprocità sono solitamente molto attenti a difendere le proprie aziende
nazionali (in questo caso “nazionali” non sta per “pubbliche” ma vuol dire “della
loro stessa nazionalità”).
Insomma nessun pregiudizio a fare entrare gli stranieri nell’azionariato delle aziende italiane ma solo una particolare attenzione quando le loro quote arrivano a superano il 50% e rappresentano quindi una vendita vera e propria del controllo di tutta l’azienda.Per carità, esistono esempi virtuosi di tali cessioni, come quello della cessione della Nuovo Pignone alla General Electric, ma ve ne sono anche meno virtuosi, come quello ricordato nel ritaglio qui sopra.
L’Italia non brilla certo per la dimensione delle proprie aziende e quindi neanche per la loro presenza nelle principali graduatorie Top 10 o Top 50 internazionali. Continuare a spezzettare e (s)vendere (?) la nostra industria potrebbe non essere la scelta migliore in uno scenario in cui tutti i Paesi che stanno meglio di noi parlano di mercato unico europeo, unbundling e globalizzazione … ma poi continuano a difendere gelosamente le proprie aziende più grandi.
Dal Fatto Quotidiano del 6 novembre scorso |
Insomma nessun pregiudizio a fare entrare gli stranieri nell’azionariato delle aziende italiane ma solo una particolare attenzione quando le loro quote arrivano a superano il 50% e rappresentano quindi una vendita vera e propria del controllo di tutta l’azienda.Per carità, esistono esempi virtuosi di tali cessioni, come quello della cessione della Nuovo Pignone alla General Electric, ma ve ne sono anche meno virtuosi, come quello ricordato nel ritaglio qui sopra.
L’Italia non brilla certo per la dimensione delle proprie aziende e quindi neanche per la loro presenza nelle principali graduatorie Top 10 o Top 50 internazionali. Continuare a spezzettare e (s)vendere (?) la nostra industria potrebbe non essere la scelta migliore in uno scenario in cui tutti i Paesi che stanno meglio di noi parlano di mercato unico europeo, unbundling e globalizzazione … ma poi continuano a difendere gelosamente le proprie aziende più grandi.
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