sabato 28 dicembre 2013

Retributivo, contributivo e conflitto generazionale

Quando l'informazione parziale rischia di alimentare equivoci e malessere sociale

di Achille Nobiloni

Forse sopito, solo per il momento, il tema delle “pensioni d’oro” c’è chi torna a gettare benzina sul fuoco alimentando, si spera inconsapevolmente, se non proprio l’”odio” quanto meno lo “scontro” intergenerazionale questa volta sul tema del confronto tra regime retributivo e regime contributivo.
“Caro pensionato che ti lamenti che la tua pensione retributiva di 2.000 euro lordi sia bassa, vallo a raccontare a un giovane precario”: questo ad esempio il tweet recente non di un qualsiasi populista dell’ultima ora ma di un noto economista, professore e autore di articoli su testate nazionali, e questo l’immediato tweet di replica di uno dei suoi lettori: “… e soprattutto pensa cosa gli rubi con il retributivo che ti è stato graziosamente riconosciuto. #contributivopertutti”.
Si direbbe insomma che sia proprio un’abitudine tutta italiana quella di spostare l’attenzione dagli aspetti centrali a quelli periferici di un dato tema o presentare le cose guardandole non di fronte ma da un angolo laterale e quindi con una prospettiva distorta, con tutto quel che ne consegue.
Tanto per partire dall’esempio delle “pensioni d’oro”: in Italia ci sono circa 16 milioni e mezzo di pensionati, dei quali 7,2 non arrivano a 1.000 euro lordi al mese (circa 2,2 sono addirittura sotto i 500 euro), circa 6,8 milioni hanno una pensione tra i 1.000 e i 2.000 euro, circa 2,4 milioni beneficiano di un assegno compreso tra i 2.000 e i 5.000 euro lordi al mese e meno di 150 mila pensionati ricevono un assegno di oltre 5.000 euro al mese. Bene, se quasi la metà dei pensionati italiani è sotto i 1.000 euro al mese e oltre 2 milioni di essi non arriva neanche a 500 euro sembra quasi che la colpa non sia stata del sistema previdenziale italiano (bassa età pensionabile, baby pensioni, cattivo uso degli ammortizzatori sociali, ecc.) ma di quel 14% di lavoratori che ha avuto l’ardire di andare in pensione con “pensioni d’oro” (!!) comprese tra i 2.000 e i 5.000 euro lordi al mese.
Se invece ci riferiamo al conflitto intergenerazionale e leggiamo quel che scrivono il nostro economista e il suo follower su twitter (lo dico senza ironia e con il massimo rispetto) allora dovremmo concludere che anche una pensione di 2.000 euro mensili lordi dopo quarant’anni di lavoro, giacché retributiva anziché contributiva, è comunque un furto nei confronti del giovane precario di oggi.


E già perché in questo modo il giovane precario o il giovane disoccupato anziché arrovellarsi a capire con chi prendersela per la situazione spiacevole in cui si trova (uno Stato imprevidente che anziché pensare a scuola, ricerca, formazione e a favorire gli investimenti, lo sviluppo e l’occupazione ha sperperato risorse in una spesa pubblica clientelare e inefficiente coperta per lo più con sempre nuove tasse; imprenditori nel corso dei decenni attratti più dalla finanza che dall’industria; sindacati autoreferenziali sempre più attenti al mondo della politica che a quello del lavoro; ecc.) avrà davanti a se persone fisiche, in carne e ossa, cui imputare la propria precarietà o la propria disoccupazione: il padre, lo zio, il vicino di casa e tanti altri che con la loro pensione retributiva “d’oro” di 2.000 euro lordi al mese gli starebbero rubando il futuro.
Non sono né un economista né un giurista né tanto meno un politico e quindi lascio ad altri riflessioni su temi quali rendimenti, diritti acquisiti, redistribuzione della ricchezza, conflitto intergenerazionale, ecc. Avrei però qualche domanda alla quale mi piacerebbe che qualcuno che in questi settori ne sa più di me mi rispondesse.
La prima, rivolta soprattutto a chi invoca il “contributivo per tutti” subito, riguarda proprio quell’85% di pensioni sotto i 2.000 euro lordi al mese: non sono state anch’esse calcolate col sistema retributivo? Cosa accadrebbe loro se da domani mattina venissero ricalcolate e pagate col sistema “contributivo per tutti”? Non so certo dire di quanto ma credo che calerebbero tutte subito, sia quelle sotto i 2.000 euro sia quelle sotto i 1.000, salvandosi forse solo quelle sociali e quelle di invalidità che immagino calcolate con metodi diversi dal retributivo o contributivo. Credo anche che non ci potrebbero essere soglie al di sopra o al di sotto delle quali applicare l’uno o l’altro metodo dal momento che ciò produrrebbe una disparità di trattamento (ma la Costituzione sancisce il principio di uguaglianza) che inoltre si andrebbe a sovrapporre, alterandolo credo illegittimamente, al meccanismo della progressività del prelievo fiscale.
Mi chiedo poi se siano stati elaborati sistemi di calcolo attendibili sulla differenza di trattamento derivante dall’applicazione retroattiva del metodo contributivo e se si abbia un’idea concreta di quanto si potrebbe “recuperare” con questa misura.
Mi chiedo anche se sia corretto cambiare continuamente le regole del gioco, prima con un innalzamento improvviso e sensibile dell’età pensionabile e poi con una eventuale riduzione retroattiva della pensione a tutti coloro i quali, non toccati dalla riforma Dini, non erano stati indotti neanche a riflettere sull’opportunità di far ricorso alla previdenza integrativa nel frattempo introdotta.
Infine mi chiedo se un precario di oggi riceverebbe un vantaggio maggiore dal taglio improvviso della pensione retributiva del padre, che magari lo aiuta ad arrivare a fine mese, o piuttosto da misure mirate a favorire lo sviluppo e l’occupazione. E non mi si dica, per i motivi che abbiamo visto sopra, che queste misure potrebbero essere finanziate proprio con i tagli alle cosiddette “pensioni d’oro”.

venerdì 8 novembre 2013

La differenza tra "investire" in Italia e "comprare" in Italia

di Achille Nobiloni

Qual è la differenza tra “investire in Italia” e comprarsi un’azienda italiana? C’è chi sostiene che tra le due cose non vi sia differenza e il fatto che uno straniero compri un’azienda italiana vada considerato come un risultato positivo degli sforzi per attrarre gli investitori stranieri in Italia.
Secondo me invece la differenza c’è, eccome: chi “investe” in Italia crede nel nostro Paese e nelle nostre competenze (tutto sta a vedere quanti e quali sono quelli che ancora lo fanno), viene quindi da noi, compra un terreno, ci costruisce sopra una fabbrica, magari una succursale dell’industria che gestisce in patria, assume gente e crea una nuova attività produttiva. Chi invece compra una azienda in Italia non sempre è animato dagli stessi intenti e a volte può anzi essere mosso da un fine predatorio: viene in Italia, si compra un’azienda locale, magari complementare all’attività principale che egli svolge in patria, inserisce l’azienda italiana nel proprio circuito internazionale sfruttando sinergie e razionalizzazioni a discapito della stessa azienda italiana quando non addirittura smembrandola con la classica tecnica dello “spezzatino” o prosciugandone le risorse.
Esemplare a tale riguardo è quanto riportava l’articolo qui sotto del Fatto Quotidiano del 6 novembre scorso.

Dal Fatto Quotidiano del 6 novembre scorso
Certo questo non vuol dire che quella descritta qui sopra sia la regola ma certo è un rischio che si corre a vendere le nostre aziende agli stranieri, specialmente a quelli che in barba a ogni principio di reciprocità sono solitamente molto attenti a difendere le proprie aziende nazionali (in questo caso “nazionali” non sta per “pubbliche” ma vuol dire “della loro stessa nazionalità”).
Insomma nessun pregiudizio a fare entrare gli stranieri nell’azionariato delle aziende italiane ma solo una particolare attenzione quando le loro quote arrivano a superano il 50% e rappresentano quindi una vendita vera e propria del controllo di tutta l’azienda.Per carità, esistono esempi virtuosi di tali cessioni, come quello della cessione della Nuovo Pignone alla General Electric, ma ve ne sono anche meno virtuosi, come quello ricordato nel ritaglio qui sopra.
L’Italia non brilla certo per la dimensione delle proprie aziende e quindi neanche per la loro presenza nelle principali graduatorie Top 10 o Top 50 internazionali. Continuare a spezzettare e (s)vendere (?) la nostra industria potrebbe non essere la scelta migliore in uno scenario in cui tutti i Paesi che stanno meglio di noi parlano di mercato unico europeo, unbundling e globalizzazione … ma poi continuano a difendere gelosamente le proprie aziende più grandi.

giovedì 7 novembre 2013

L'Italia che non trova 3 miliardi per l'IMU ma ne "gioca" 75 l'anno

di Achille Nobiloni

Strano Paese l’Italia e strano popolo gli italiani: non si riesce a trovare un miliardo di euro per non far aumentare l’Iva, non si trovano 4 miliardi per abolire l’IMU, ci si accapiglia per 12 miliardi l’anno per le pensioni considerate d’oro (cioè quelle al di sopra dei 5.300 euro lordi al mese) ma in un solo anno si spendono 75 miliardi (s-e-t-t-a-n-t-a-c-i-n-q-u-e-!!!) in giochi legalizzati.
I dati, riferiti al 2011, sono quelli riportati il 1° dicembre di quell’anno sul n. 48 di Sette, l'inserto settimanale del Corriere della Sera: nel 2011 gli italiani hanno speso quasi 75 miliardi di euro in giochi: quasi 7 nel gioco del Lotto; oltre 2 nel Superenalotto; 300 milioni nel Win for life; oltre 10 miliardi nei Gratta e vinci;  quasi 4 in giochi "a base sportiva" (immagino sia il vecchio Totocalcio); oltre un miliardo nelle corse ippiche;  quasi 2 nel Bingo;  addirittura più di 29 con gli "apparecchi da intrattenimento" (immagino siano le "slot machines"); quasi 12 con le Videolotterie e oltre 7 con il Poker online.
Insomma un totale di quasi 75 miliardi di euro, in forte progressione rispetto ai 62 dell'anno precedente, i 54 del 2009, i 48 del 2008 e i 42 del 2007: ben 280 miliardi di euro in un solo quinquennio o, se si vuole, una media di 56 miliardi l’anno, arrivati però già due anni fa a 75 miliardi in un singolo anno. Come dire 1.250 euro a persona considerando anche i neonati e gli ultranovantenni, oppure una media di 3.000 euro per ognuna dei 24,5 milioni di famiglie italiane.
Bene: di questi 280 miliardi lordi solo 42 rappresenterebbero l’introito per lo Stato, così come rispetto ai 75 miliardi lordi del 2011 l’introito per lo Stato sarebbe stato di soli 9,3 miliardi (v. tabella).
 
Dal n. 48 di Sette, inserto del Corriere della Sera del 1° dicembre 2011
Certo ci dovrebbero poi essere le tasse che gli operatori del settore dovrebbero pagare sui loro guadagni ma se è vero quel che si è letto di recente sui giornali pare che lo Stato abbia qualche difficoltà a incassare queste somme: se non ho capito male si dovrebbe essere accumulato un credito di 90 miliardi in non so quanti anni.
Settantacinque miliardi spesi nel gioco meno i 9,3 miliardi incassati dallo Stato vuol dire che in un solo anno sono stati sacrificati al brivido da adrenalina più di 65 miliardi di euro e resta il fatto che proprio quelli che strillano di più per l’IMU, per l’Iva e le pensioni “d’oro” sono quelli che ogni mese sfidano la fortuna con centinaia di euro. E si perché se 1.250 euro l’anno a persona o 3.000 euro a famiglia equivalgono rispettivamente a 100 e a 250 euro al mese, è anche vero che questi dati, calcolati su tutti e 60 i milioni di italiani, sono come la classica “media di Trilussa” ma poi a tentare la fortuna al gioco sono soprattutto i ceti meno abbienti e i 100 o 250 euro al mese per loro si moltiplicano per due, per tre o per quattro, come nel caso mostrato l’altra sera a Report dell’anziano che con una pensione di 500 euro al mese ne spendeva tre quarti in sala giochi.
E’ ovvio che con i propri soldi ognuno è libero di fare ciò che vuole ma quando son finiti fa una certa differenza vedere come”sono stati spesi: ben diverso è il caso di chi non arriva a fine mese perché ha dovuto comprare scarpe, vestiti, cure mediche e libri di scuola ai figli da quello di chi non ci arriva perché s’è giocato lo stipendio al lotto e se sono veri i dati pubblicati non stiamo parlando di qualche centinaio di maniaci del gioco: 75 miliardi di euro in un anno sono 150 mila miliardi delle vecchie lire e a spenderli tutti ci vuole qualche milione di persone!!
La considerazione più triste è quella di vedere uno Stato che anziché investire nella scuola, nella ricerca e nel lavoro per dare una speranza e un futuro ai propri giovani s’è ridotto invece, senza neanche riuscirci vista l’evasione nel settore, a speculare sulle illusioni di chi spera di dare una svolta alla propria vita tentando la fortuna al gioco.
Sessantacinque miliardi l’anno al netto dei 9,3 incassati dallo Stato serviranno pure a tenere in piedi il settore del gioco (che non ho la minima idea di quanti lavoratori impieghi direttamente e tramite l’indotto) ma viene spontaneo pensare a quante tasse si potrebbero ridurre, quanti investimenti si potrebbero fare per scuola, sanità e lavoro, quante pensioni minime si potrebbero ritoccare con quei 65 miliardi l’anno e magari resterebbe anche qualcosa per iniziare a provare a ridurre gradualmente il debito pubblico.

lunedì 4 novembre 2013

La indifendibile Cancellieri

di Achille Nobiloni

Non per “dolo” né per “colpa” ma per “responsabilità oggettiva”: nel caso delle cariche pubbliche la regola “in dubio pro reo” va applicata al contrario.

Domani la ministro Cancellieri riferirà in Parlamento sul caso Ligresti. Per quante e quali sfumature possa utilizzare nel suo intervento quella che la riguarda è una vicenda da valutare senza troppi distinguo in base al criterio di “responsabilità oggettiva” che va applicato alle cariche pubbliche nell’esercizio delle loro funzioni. In altre parole: esistono cose consentite alle persone comuni che non possono però essere permesse a un ministro della Repubblica.
Può non esserci nulla di male a volersi informare delle condizioni di salute della figlia di vecchi amici incappata in una questione giudiziaria e per questo detenuta ma una cosa è farlo in modo discreto, per interposta persona, e altra cosa è farlo di persona dalla posizione di ministro Guardasigilli. Può essere verissimo (giudizi di merito a parte: il “Non è giusto!” pronunciato al telefono con la moglie di Ligresti) che la Cancellieri non avesse  alcuna intenzione di esercitare pressioni sui funzionari interpellati e che questi ultimi non si siano lasciati né impressionare né influenzare dalla sua telefonata ma è indubbio che una telefonata del Guardiasigilli non è una cosa usuale e quindi quell’effetto avrebbe potuto averlo ed è questo un primo motivo per cui quella telefonata, di persona, non andava fatta.
 
 
Un altro buon motivo lo si trova nell’articolo 3 della Costituzione che sancisce il principio di uguaglianza: quanti sono i cittadini comuni che tra le proprie amicizie possono vantare quella di un ministro pronto a spendersi, in caso di bisogno, con una telefonata personale a funzionari dello Stato per informarsi dello stato di un iter o di una persona fisica? Non importa che nella fattispecie l’intenzione o il risultato di quella telefonata non siano state quelle che molti imputano al ministro, conta il fatto che quella telefonata non rappresenta un comportamento normale e soprattutto che non tutti i cittadini, ma solo un ristrettissimo gruppo di amici personali del ministro, abbiano la possibilità di poter contare su un simile trattamento e non in base a un loro diritto o particolare situazione oggettiva ma solo in virtù di un’amicizia esclusiva e quindi di un privilegio.
Insomma quel che rende indifendibile la ministro non è il presunto “dolo” nella sua azione e forse neanche la eventuale “colpa” nel non aver pensato a possibili conseguenze e risvolti di quella telefonata quanto piuttosto la “responsabilità oggettiva” legata al fatto che certe cose nella sua posizione non si fanno e basta!
Domani in Parlamento verrà probabilmente fuori che la ministro si è interessata anche ad altri casi simili, che la telefonata non ha avuto alcun effetto pratico perché l’iter di scarcerazione era già stato avviato, che non era assolutamente intenzione della ministro esercitare alcuna pressione, ecc. ecc. e qui si potranno innescare mille controdeduzioni tipo che: non risulta esistere uno sportello intitolato “scrivi al ministro” presso cui chiunque possa rivolgersi per chiedere la scarcerazione di un congiunto oppure che quando la ministro ha telefonato non poteva sapere se i magistrati avessero o no già deciso di scarcerare la Ligresti oppure, ancora, che è difficile provare quali fossero le reali intenzioni della ministro al momento della telefonata, ecc. ecc.
Insomma una verità oggettiva sulla vicenda non c’è e non è facile appurarla. Di oggettiva c’è solo la responsabilità di aver fatto una cosa che a un ministro non dovrebbe essere consentita, una “responsabilità oggettiva” che nei confronti di un ministro, come di qualsiasi altra carica pubblica, dovrebbe servire a fugare ogni possibile dubbio o sospetto. Infatti se nel caso di un normale cittadino vale la regola “in dubio pro reo”, nei confronti delle cariche pubbliche questa regola andrebbe applicata al contrario.
Ecco perché, pur con tutta la più buona volontà, la ministro Cancellieri è indifendibile e nella seduta parlamentare di domani farebbe bene a rassegnare le proprie dimissioni per la credibilità sua e delle Istituzioni.

martedì 29 ottobre 2013

Non sempre chi fa da se fa per tre

di Achille Nobiloni
 
Di fronte al perdurare della crisi economica sono molti in Italia quelli che dicono e scrivono, specialmente sui social network, che per risollevarci dalla difficile situazione in cui ci troviamo occorre: riappropriarci della sovranità nazionale, uscire dall’euro, fregarcene del limite del 3% al rapporto deficit/PIL, stampare moneta e ribassare drasticamente le tasse.
Io non ho studiato economia ed è quindi probabile che dica delle grandi sciocchezze ma a buon senso quella sopra descritta mi sembra una battaglia di retroguardia combattuta più contro l’Unione Europea e contro la Germania in particolare che contro la crisi economica, per uscire dalla quale si vorrebbe in tal modo seguire una scorciatoia impervia, scoscesa e rischiosa piuttosto che una strada maestra magari in salita e quindi più faticosa ma certamente più sicura. 


Se andiamo a vedere bene l’Italia sarà pur sempre la seconda industria manifatturiera d’Europa ma è un Paese con un’industria frastagliata in una miriade di aziende di dimensioni piccole e piccolissime, un Paese povero di materie prime e risorse energetiche, un Paese le cui uniche ricchezze (turismo, arte e intelletto) hanno bisogno di grandi risorse economiche per essere adeguatamente coltivate e messe a frutto, insomma un Paese che con le poche forze residue difficilmente riuscirebbe a camminare da solo e comunque non andrebbe certo molto lontano. Superare la soglia del 3%, stampare moneta e ribassare le tasse potrebbe voler dire, nell’immediato, allentare la pressione sulle famiglie e ridare un po’ di slancio all’economia interna ma mi chiedo – io che, ripeto, sono profano di economia – ha ancora senso al giorno d’oggi parlare di economia interna?
Senza grandi risorse proprie, con un debito pubblico tanto alto da sfiorare ormai i 2.100 miliardi di euro, quale sarebbe la nostra affidabilità agli occhi degli altri Paesi? Quale credito avrebbero la nostra moneta e i nostri titoli di Stato all’estero? Quale sarebbe la spendibilità del nostro debito pubblico sui mercati internazionali?
Io credo che la nostra moneta e i nostri titoli pubblici diventerebbero in breve tempo carta straccia e al di fuori dei sia pur fastidiosi e vincolanti strumenti di controllo e tutela europei l’Italia sarebbe facile preda della speculazione e presto destinata al tracollo.
Non sempre chi fa da se fa per tre. Credo piuttosto che gli sforzi italiani anziché alla ricerca di una improbabile soluzione autarchica, andrebbero indirizzati verso una soluzione condivisa a livello europeo che: passi per una rivisitazione degli accordi per tener conto delle situazioni nazionali più critiche (oggi posso essere in difficoltà io, domani tu, dopodomani un altro, proprio come una decina di anni fa lo fu la Germania); porti a una nuova strategia comune nei confronti della crisi e ricollochi l’Europa tutta in una posizione più forte, o quanto meno più equilibrata, nei confronti dei BRICs e degli USA.

giovedì 10 ottobre 2013

Privatizzazioni, investimenti esteri e spesa pubblica tra equivoci e luoghi comuni

di Achille Nobiloni

In Italia molti temi di grande interesse vengono spesso affrontati muovendosi tra equivoci e luoghi comuni. Qualche esempio? Presto detto: privatizzazioni, investimenti esteri, spesa pubblica, tanto per citarne solo alcuni.
Prendiamo le privatizzazioni. ”Serviranno a ridurre il debito pubblico e a dare una scossa all’economia italiana” dicono alcuni. Ma come? Quando? In che misura?
C’è chi, come l’Istituto Bruno Leoni, ha fatto una stima di quanto potrebbero fruttare le privatizzazioni e quanto potrebbero far risparmiare in interessi sul debito pubblico. La tabella qui sotto, pubblicata in un’inchiesta su BusinessPeople, mostra come ci si aspetti di ricavare 136 miliardi di euro dalla vendita di immobili e 135 miliardi dalla vendita di partecipazioni azionarie, per un totale di 271 miliardi destinati all’abbattimento del debito pubblico (che, sia detto per inciso, ammonta ormai a circa 2.080 miliardi) con un risparmio in interessi pari a 11 miliardi l’anno.

Fonte: Istituto Bruno Leoni (dicembre 2012) su BusinessPeople

Bene! Ma in quanto tempo si riuscirà a vendere il patrimonio immobiliare dismettibile? E’ verosimile poterlo mettere sul mercato tutto insieme e riuscire a venderlo nell’arco di qualche mese? O non ci vorranno forse degli anni? Molti anni! E se davvero dovessero volerci anni quale sarebbe l’impatto effettivo sulla riduzione del debito pubblico e quale sarebbe la scossa effettiva che si darebbe all’economia italiana?
E la vendita delle residue partecipazioni azionarie pubbliche? Secondo le stime dell’IBL si dovrebbero ricavare: 11,3 miliardi da Enel; 24,8 da Eni; 4,3 da Snam; 0,8 da ST Microelectronics; 2,2 da Terna e 1 tondo tondo da Finmeccanica ma anche qui ci sarebbe qualche considerazione da fare. Prendiamo per esempio la partecipazione di maggior valore, che è quella in Eni: i 24,8 miliardi ricavabili dalla vendita del 30,3% della società ancora in mano pubblica equivarrebbero a una riduzione del debito pubblico pari all’1,2%, con un risparmio in interessi di 1 miliardo l’anno, che però è ben meno di quello che la società paga come dividendo all’azionista pubblico. Quale sarebbe allora il vantaggio delle privatizzazioni? Se avessero un effetto risolutivo sul livello del debito pubblico o su quello della spesa per interessi capirei pure ma viste le cifre qui sopra non sembra proprio essere questo il caso.
E gli investimenti esteri? Sarò io che non capisco niente ma anche qui mi sembra esserci  qualche differenza tra “investire in Italia” e “comprarsi un’azienda italiana”. Nella stessa inchiesta su BusinessPeople viene intervistato l’economista Carlo Stagnaro al quale, sostenitore convinto delle privatizzazioni (contrario invece il Prof. Giulio Sapelli e possibilista l’On. Paolo Cirino Pomicino), viene posta la seguente domanda: “C’è chi paventa il rischio di un nuovo arrembaggio straniero su quel poco che resta della grande industria italiana. Cosa ne pensa?”. Questa la risposta di Stagnaro: “Direi proprio che questa è davvero una posizione singolare. Ci si lamenta sempre che gli stranieri investono pochissimo nel nostro Paese e poi, non appena si ha il sentore dell’acquisizione di un’azienda italiana da parte di un gruppo estero, ecco che sono tutti pronti a fare le barricate per difendere l’industria nazionale”.
Ora - l’ho già detto e lo ripeto - sarò io che non capisco niente ma per conto mio c’è differenza tra “investire in Italia”, cioè qualcosa simile al venire qui, acquistare un terreno, costruirci sopra una fabbrica, assumere gente e cominciare a produrre qualcosa, e il “comprarsi - puramente e semplicemente - un’azienda italiana” magari svendendone subito qualche pezzo e facendo un po’ di licenziamenti! Nel primo caso, sempre a parer mio, lo straniero che investe in Italia mostra di credere nel nostro Paese, vi insedia una succursale, uno stabilimento, assume gente, crea ricchezza per se e per chi lavora per lui. Nel secondo caso chi rileva un’azienda italiana molte volte la inserisce e integra nel proprio circuito produttivo, realizza economie di scala, razionalizza, sfrutta sinergie, ottimizza e acquisisce ricchezza che poi reinveste dove e come più gli conviene.
Io quindi non mi scandalizzo tanto se di fronte a qualche acquisizione straniera, specialmente se in settori importanti quali le telecomunicazioni e il trasporto aereo (figuriamoci in altri più strategici come ad es. la difesa), dovesse sorgere qualche piccola barricata a difesa dell’industria nazionale.
E che dire della spesa pubblica? E’ un’altra specie di tabù di fronte al quale ci si sente impotenti e se qualcosa si fa lo si fa tagliando sulla scuola, la sanità, la ricerca, le pensioni, ecc. Ora darò forse sfogo a un po’ di mio populismo represso ma da quando si è cominciato a parlare di spending review mi sembra davvero di averne sentite e lette di tutti i colori: “spesa aggredibile” di 100 miliardi presentata sui giornali e nei TG come “tagli” per 100 miliardi, salvo poi ridimensionare ingloriosamente il tutto e ridursi a far tornare Carlo Cottarelli dal Fondo Monetario Internazionale con l’incarico di tagliare dai 4 ai 5 miliardi di spesa pubblica nel 2014: si dai 4 ai 5 miliardi su più di 800!!
Ora mi chiedo: ma possibile che quando si parla di tagli di spesa pubblica si parli sempre e solo di evitare i tagli lineari o del rischio di incidere ancor più in profondità sui già scarni bilanci della sanità, della scuola o della ricerca anziché puntare decisamente sull’efficienza in tutti i campi?
Tanto per parlare di sanità, già nel settembre del 2007 nel “Libro verde sulla spesa pubblica” realizzato a cura del ministero dell’Economia a Finanze, si leggeva che il costo medio di un giorno di degenza in un ospedale italiano era, sei anni fa, di 674 euro, con un minimo di 593 in Liguria e un massimo di 932 in Piemonte. Ora non ho idea di quanto costi un giorno di degenza in Francia o in Germania ma so che spesso in Italia quando si entra in un ospedale (ne abbiamo anche noi di ottimi) si sa quando si entra ma non si sa quando si esce, con una spesa evidentemente molto elevata.
E sempre per rimanere in tema di efficienza e qualità dei servizi, a costo di passare per fissato torno a chiedere ancora una volta: ma perché se io costruisco un muretto nel mio giardino mi costa mille euro e se lo costruisce il Comune o la Provincia in un parco pubblico gliene costa tremila o cinquemila? Perché le strade italiane sono in gran parte vecchie, strette e mal manutenute?
E per parlare infine di sprechi che dire di tutte quelle opere pubbliche incompiute o finite ma mai utilizzate e già fatiscenti, documentate in tanti servizi di Striscia la Notizia?
Ieri mattina andando per la prima volta a Tor Vergata sono passato dietro la grande Vela di Calatrava, vanto della mai ultimata Città dello Sport, e mi sono fermato a fare una fotografia. Poi, la sera a casa, ho cercato in rete e ho letto che è costata 200 milioni di euro!

La Vela di Calatrava a Tor Vergata (Roma)

lunedì 7 ottobre 2013

Restare in Italia. Perchè?

di Achille Nobiloni
 
Un mio collega mi ha detto l’altro giorno che il figlio è andato a studiare Geofisica a Londra: quattro anni di università all’estero. “Rientrerà mai in Italia?”, mi sono chiesto.
E perché mai dovrebbe? L’Italia è un paese in cui negli ultimi sette anni la produzione industriale è scesa del 25%, la disoccupazione è raddoppiata e il reddito medio per abitante è tornato al livello di quindici/venti anni fa! Quali prospettive di lavoro e quali attrattive può offrire a un giovane intelligente e brillante, desideroso di competere e affermarsi in un mondo sempre più tecnologico e globalizzato?
Disapprovo gli esterofili a tutti i costi tanto quanto la retorica del patriottismo ma a voler essere obiettivi la situazione italiana è tutt’altro che rosea e quel che è peggio non si intravvedono segnali di miglioramento.
L’Università e la Ricerca sono quel che sono, le prime a subire tagli a ogni accenno di spending review, con gli atenei sovraffollati, burocratizzati, privi di campus e laboratori, con gli studenti costretti a studiare la teoria in solitudine sui libri ognuno a casa propria, senza poter esercitare la pratica in gruppo nei laboratori o sul campo, per poi doversi presentare di tanto in tanto a sostenere esami che risultano spesso un terno al lotto anziché occasioni di verifica delle loro fatiche di apprendimento e sperimentazione.
Prospettive di inserimento nel mondo del lavoro meglio non parlarne: tra stage, apprendistati, contratti di formazione, di collaborazione, a progetto e precariati vari, i più fortunati riescono si e no a mettere insieme una sorta di “paghetta” mensile che bene che vada consente loro di non gravare troppo sulle spalle dei genitori ma certo non gli da la possibilità di sposarsi, comprare una casa e metter su famiglia e chi riesce a fare il ricercatore ha uno stipendio che varia dai 1.200 ai 1.500 euro al mese.
 
 
In quanto alla politica e alle prospettive di risanamento del Paese la situazione è sotto gli occhi di tutti: fin dalla mattina presto accendi la TV e sei bombardato di talk show nei quali molti di quelli che ci hanno governato negli ultimi decenni, e che avrebbero dovuto quindi preoccuparsi della crescita dell’economia e del benessere nazionale, ci spiegano che in Italia il 10% dei cittadini detiene il 45% della ricchezza dimenticando però che 1.000 persone su 60 milioni (mi riferisco ovviamente ai parlamentari) ci hanno portato dove siamo oggi, a 2.076 miliardi di euro di debito pubblico contro gli 840 di venti anni fa e a fronte di infrastrutture e servizi pubblici inadeguati e inefficienti e di un funzionamento dello Stato paragonabile a quelli di Paesi ben più arretrati del nostro.
E il rimedio suggerito qual è? Ovvio: chiedere un ulteriore sacrificio agli italiani per la salvezza del Paese e intervenire sulla ricchezza pubblica, questo almeno è quel che suggeriva l’altra mattina a Omnibus su La7 il buon Paolo Cirino Pomicino.
Certo, c’è anche il patrimonio dello Stato da dismettere: qualche caserma male in arnese, un po’ di case cantoniere, dei terreni e magari anche qualche stabile di pregio, oltre a quel poco che resta in partecipazioni residue nel capitale di alcune ex-aziende pubbliche, ma a fronte di un debito di oltre 2.000 miliardi che negli ultimi due anni e mezzo è cresciuto al ritmo di 100 miliardi l’anno il patrimonio dello Stato non basta: quello immobiliare richiede anni per essere dismesso e quello azionario potrebbe fruttare solo qualche decina di miliardi. Quindi, ancora una volta, ci dovranno pensare gli italiani.
l clima generale poi è quello della caccia alle streghe e del “dai all’untore”, per cui basta avere una pensione di 3.500 euro al mese per essere considerato “ladro”, come si legge sempre più spesso su twitter, per non parlare di chi ha un reddito di 100.000 euro, magari da lavoro dipendente su cui paga quindi fino all’ultimo euro di tasse, che viene comunque considerato un super-ricco (visto che quelli che dichiarano questo ammontare sono lo 0,8% dei contribuenti) ed è perciò assoggettato a ogni tipo di sovrattassa, addizionale o contributo di solidarietà, fino a chi invece di avere una sola casa ne ha due o magari tre ed è anch’egli considerato un privilegiato, quando non addirittura un disonesto, anziché uno che ha lavorato e investito i frutti del proprio lavoro.

 
Insomma in Italia l’idea che uno possa studiare, trovare o inventarsi un lavoro e godere dei frutti di quel lavoro senza doversene quasi vergognare in pubblico sembra non sfiorare più nessuno. La meritocrazia non si sa più cosa sia e se uno ha un buono stipendio che gli frutta una buona pensione e gli consente di comprarsi durante la propria vita lavorativa due o tre appartamenti non è una persona di successo da additare a esempio ma è automaticamente un raccomandato, un evasore fiscale, un disonesto o un ladro!
Non solo: se i vecchi politici ci hanno ridotto in queste condizioni, i nuovi – quelli che si affacciano all’orizzonte spinti dalla protesta popolare – cavalcano gli aspetti peggiori di questa protesta e anziché ricercare nuovi stimoli di crescita dell’economia e del benessere nazionale puntando sull’innovazione, sulla competitività e sulla meritocrazia, utilizzano il malcontento popolare, lo fomentano fin quasi sulla soglia dell’odio sociale, e puntano su un allineamento generalizzato, quantitativo e qualitativo, verso il basso.
L’esempio più eclatante è ancora una volta quello delle pensioni e “pensioni d’oro”. Ebbene, secondo i dati INPS in Italia le pensioni fino a 3.850 euro lordi al mese sono 16 milioni 200 mila e costano 246 miliardi su un totale di 270; quelle al di sopra dei 3.850 euro sono 350 mila e assorbono i restanti 24 miliardi. Anche imponendo un tetto massimo di 3.850 euro lordi al mese a tutte le pensioni si recupererebbero 6,5 miliardi che spalmati sulle pensioni più basse, quelle che l’INPS mette tutte insieme in un primo scaglione fino a 1.443 euro lordi mensili (che sono 11 milioni 300 mila), le farebbero crescere di solo 44 euro al mese.
E si badi bene: 3.850 euro mensili lordi (pari a 2.670 euro netti) non l’ho inventato io ma è un valore che ho preso per comodità dai dati resi pubblici dall’INPS che lo indica come valore limite del 5° dei 48 scaglioni in cui l’istituto suddivide l’entità dei trattamenti pensionistici da esso erogati.
A dar retta alle molte voci che girano in rete e non solo, e che come tetto massimo per le pensioni invocano la soglia di 3.500 euro lordi al mese (al di sopra della quale le stesse sarebbero tutte da considerare “d’oro” e chi le percepisse sarebbe da considerare automaticamente “ladro”), vorrebbe dire che in Italia, dopo 45 anni di lavoro e di contributi versati, nessuno potrebbe avere una pensione netta più alta di 2.453 euro al mese. E tutto questo senza che le cosiddette “pensioni d’oro” o presunte tali possano dare un contributo concreto alle pensioni più basse che come abbiamo visto trarrebbero dall’imposizione di questo tetto un beneficio di 40 o 50, massimo 60 euro, al mese.
E ora ditemi voi cosa dovrebbe essere, in questa situazione, a trattenere in Italia uno studente che avesse la possibilità di fare l’Università all’estero, in un ateneo attrezzato, con laboratori nei quali poter studiare e fare pratica tutti i giorni, con professori che lo assistono e lo seguono costantemente e, più ancora, cosa dovrebbe essere a farlo tornare in Italia una volta conseguita la laurea, a lavorare in un Paese dove per decenni le raccomandazioni hanno fatto premio sul merito, dove il successo è visto sempre più come una colpa di cui doversi vergognare e dove il nuovo che avanza sembra spinto più dal populismo e da una voglia di rivalsa livellatrice verso il basso che dalla ricerca di nuove basi di crescita, sviluppo e competitività.
Chi ci ha governato finora ci ha portato dove siamo e chi si affaccia all’orizzonte è tanto preso dalla lotta ai privilegi che rischia di non distinguere più i privilegi veri da quelli presunti, col risultato molto probabile di buttare via il bambino con l’acqua sporca. In questo contesto i ragazzi che hanno la possibilità e la fortuna di studiare all’estero dovrebbero poi tornare in Italia a lavorare in aziende una volta italiane ma ora in mano a investitori esteri, ai quali tutt’al più ci siamo limitati a chiedere qualche temporanea garanzia sui livelli occupazionali ma dai quali non possiamo certo pretendere che reimpieghino gli eventuali utili in ricerca e nello sviluppo delle aziende che hanno comprato con un’ottica bene che vada di investimento ma assai più probabilmente predatoria.
Certamente necessari i sacrifici che nei prossimi tempi saremo chiamati a fare nel tentativo, sempre più difficile, di risollevare l’Italia a patto però che il ricavato non sia ancora una volta disperso in una spesa pubblica che non si riesce a razionalizzare e rendere più efficiente, che non sia vanificato dal mancato ridimensionamento di un debito pubblico che cresce ormai al ritmo di 100 miliardi l’anno e soprattutto che ci si renda conto che è ormai indispensabile investire nelle potenzialità della ricerca e nel futuro delle nuove generazioni.

martedì 17 settembre 2013

Ma quali sono le vere "pensioni d'oro"?

di Achille Nobiloni
 
In Italia le pensioni pagate dall’INPS sono 16 milioni e mezzo per un totale di 270 miliardi e mezzo di euro all’anno con un importo medio mensile di 1.258 euro lordi.
Nei talk-show e in rete si continuano a sentire e leggere le cose più strane a proposito delle cosiddette “pensioni d’oro”. La più inverosimile e sballata è che vi siano “30.000 pensioni d’oro da 90mila euro al mese da 34mld l’anno”; la più pacata è che “dobbiamo pagare ogni anno 13 miliardi di euro per le pensioni d’oro”.
A questo punto sarebbe bene e utile per tutti mettersi d’accordo su quali siano effettivamente le “pensioni d’oro” e parlare, una volta per sempre, tutti la stessa lingua.
Ebbene, prendendo i dati ufficiali INPS viene fuori che le pensioni superiori a 5.290 euro lordi mensili (circa 3.500 netti) sono in totale 136.299 e assorbono 12 miliardi di euro l’anno. Di questi 12 miliardi, 11 servono però a pagare le pensioni comprese tra i 5.290 e i 10.100 euro mensili lordi, che francamente si fa una certa fatica a considerare “pensioni d’oro”. Certamente si tratta di pensioni di tutto rispetto ma il loro importo è lordo e comunque commisurato, sia pure col sistema retributivo e non contributivo, al livello degli stipendi di tutta una vita.
 


Ma anche a volerle considerare “d’oro” e volerle quindi tagliare, a che livello andrebbero tagliate? Fino a 3.500 euro lordi al mese? E con quale criterio di equità rispetto a tutti coloro che già sono su quel livello?
Mi spiego meglio: se ci sono due persone che hanno lavorato entrambe per una vita prendendo come stipendio l’una il doppio dell’altra e percepiscono oggi, una, una pensione di 3.500 euro lordi al mese e l’altra una pensione di 6.000 euro lordi sarebbe equo ridurre la pensione da 6.000 euro a 3.500 euro come l’altra? In base alla considerazione che al di sopra dei 3.500 euro mensili lordi tutte le pensioni debbano essere considerate “d’oro” e vadano quindi tutte plafonate? Credo che un livellamento del genere sarebbe davvero difficile da giustificare ... anche se ci trovassimo a Livorno nel 1921!
Rimangono le pensioni di importo mensile lordo superiore ai 10.100 euro, per le quali si può ragionevolmente cominciare a parlare di “pensioni d’oro”, ma sono solo9.008 e assorbono poco più di un miliardo e mezzo di euro l’anno: ben altra cosa rispetto alle “30.000 pensioni d’oro da 90mila euro al mese da 34mld l’anno” sparate su twitter. E anche qui, a ben vedere, quelle comprese fra 10.100 e 15.390 euro lordi mensili sono 7.654 per un totale di 1,175 miliardi di euro l’anno mentre le pensioni superiori a 15.390 euro lordi mensili, sono in tutto 1.354 per un totale di 367 milioni 185 mila euro l’anno.
Insomma, l’importante è prendere le misure e mettersi d’accordo su parametri e definizioni, anche perché in Italia ormai se si guadagna più di 100.000 euro l’anno si è un “super-ricco”, se si possiedono tre appartamenti si è un capitalista e una pensione di più di 3.500 euro lordi al mese è considerata “d’oro”, il che non è certo la rappresentazione corretta di quella che aspira ad essere una delle prime dieci economie mondiali.

giovedì 12 settembre 2013

Ricerca, innovazione e inventiva: la nostra ultima possibilità

Di fronte all’inadeguatezza delle misure tradizionali è necessario puntare tutto su ricerca, innovazione e libertà di impresa: basterebbero due Apple e una Microsoft per risolvere il problema del debito pubblico.


di Achille Nobiloni

Domanda n. 1: se il debito pubblico italiano cresce ormai al ritmo annuo di circa 100 miliardi di euro e 5 o 6 punti di incidenza percentuale sul Pil, a cosa possono servire poche decine di miliardi derivanti dalla dismissione dei cosiddetti gioielli di famiglia?
Domanda n. 2: in uno scenario di prolungata crisi mondiale e di fronte alla prevedibile concorrenza delle nuove economie in via di rapido sviluppo, un Paese privo di grandi risorse naturali e ormai impoverito come l’Italia quali possibilità ha di rimettersi in piedi e ricominciare a crescere al ritmo degli altri Paesi europei?
Domanda n. 3: a cosa dovrebbe puntare il Governo per risanare l’economia nazionale e tentare di risollevare le sorti dell’Italia?
Una risposta alquanto inquietante alla prima domanda viene dall’articolo di Paolo Cirino Pomicino sul Foglio di oggi. Dopo aver ricordato la massiccia campagna di dismissioni avviata negli anni ’90 (lui la chiama “stagione di spoliazione del Paese”) che riguardò praticamente tutto il sistema bancario nazionale e grandissima parte dell’industria pubblica, l’ex-ministro democristiano scrive: “Mentre avvenivano le vendite descritte per oltre 150 miliardi di euro il nostro debito pubblico è aumentato di oltre 1.200 miliardi di euro (da 839 miliardi del ’92 a oltre 2.000 miliardi attuali). Un disastro economico, sociale e morale nascosto sotto il manto della lotta al debito che continua imperterrito ad aumentare con la guida della nostra economia da vent’anni messa nelle mani di autorevoli tecnici”. E aggiunge: “Da qualche settimana risentiamo con orrore lo stesso ritornello che sentimmo nel lontano 1994, quello della lotta al debito pubblico con la vendita di aziende pubbliche. Un ritornello che ha trasformato in venti anni l’Italia in una colonia di rango del capitalismo europeo e internazionale e che sta da qualche anno alla canna del gas sul piano finanziario, economico e occupazionale”.
Insomma un quadruccio niente male, all’interno del quale una manciata di miliardi derivante dalla svendita di quel che resta di qualche partecipazione pubblica di rilievo più gli ipotetici proventi di qualche vendita immobiliare potrebbero servire al massimo a dare una limatina a qualche tassa o a evitarne di nuove ma non certo a risanare l’economia e avviare la crescita.
E allora quali sono le possibilità di rinascita di quella che nel 1987 Giuseppe Turani chiamava La Locomotiva Italia predicendo per essa, di lì a pochi anni, il sorpasso della Germania e il posto più alto sul podio europeo?
UN POPOLO DI POETI DI ARTISTI DI EROI DI SANTI DI PENSATORI
DI SCIENZIATI DI NAVIGATORI DI TRASMIGRATORI
Indebitata com’è, priva di risorse naturali se non le bellezze paesaggistiche e il patrimonio artistico, destabilizzata politicamente, nelle posizioni basse delle graduatorie mondiali su qualità della vita, efficienza dei servizi, funzionamento della Giustizia, lotta alla corruzione, ecc. l’unica strada forse percorribile per l’Italia è puntare il tutto per tutto sulla ricerca e l’innovazione dando il massimo sostegno possibile all’estro e l’inventiva che hanno contraddistinto gli italiani in tutte le arti e le scienze nel corso dei secoli.
Detta così può sembrare un’uscita patriottica, piena di retorica, ma provate a immaginare una Scuola, un’Università e dei centri di ricerca pubblici, moderni, bene attrezzati, in grado di trattenere e incentivare i “cervelli” italiani invece di spingerli a fuggire all’estero: basterebbero due Apple e una Microsoft per risolvere il problema del debito pubblico, società nate in un garage o fondate da studenti teenager che ne corso degli anni hanno toccato capitalizzazioni superiori a 600 miliardi di dollari l'una!
Sappiamo tutti che le prime necessità dell’Italia sarebbero quelle di riavviare la crescita e l’occupazione, razionalizzare la spesa e ridurre il debito. Sono anni che, almeno a parole, i governi che si sono susseguiti hanno fatto promesse e tentativi in tal senso.
Però sappiamo anche che mentre noi dicevamo di volerci provare (purtroppo senza riuscirci) il mondo intorno a noi è cambiato, il divario tra noi e altri Paesi e aumentato e nuove economie si sono affacciate all’orizzonte e mentre noi siamo diventati i più prolifici e i primi della classe in tema di burocrazia, leggi e cavilli, gli altri sono andati avanti o sono retrocessi molto meno di noi.
A questo punto non ha più senso ostinarsi a tentare di recuperare terreno con i vecchi mezzi e le vecchie modalità: il distacco è troppo ampio e troppo difficilmente colmabile con le misure tradizionali fin qui utilizzate.
L’ unica strada possibile è azzerare e ridisegnare tutto.
Ricerca, innovazione, inventiva, maggior libertà di impresa devono diventare le nostre risorse nazionali con le quali supplire alla carenza di quelle naturali. E’ quindi su di esse che il Governo dovrebbe concentrare il suo impegno, piuttosto che nei soliti incentivi e agevolazioni a pioggia che servono solo a tacitare temporaneamente settori e situazioni particolari assorbendo inutilmente risorse preziose, indispensabili per sostenere le nostre ultime possibilità di rinascita.

mercoledì 11 settembre 2013

Il documento Confindustria/sindacati: molte richieste, pochi suggerimenti, nessun impegno

di Achille Nobiloni
 
A leggerlo bene, il documento firmato da Confindustria e sindacati il 2 settembre scorso a Genova somiglia più a una diagnosi che a una terapia. L’elencazione puntuale dei problemi che affliggono il settore industriale sembra infatti far premio sull’indicazione delle possibili soluzioni, forse un po’ generica e non particolarmente approfondita. Un’altra caratteristica del documento è quella di apparire piuttosto di parte: cioè di mirare dritto ai problemi di settore quasi senza considerare altro.
E’ vero che “il Governo ha più volte dichiarato l’intenzione di uscire dalla crisi puntando sul ruolo dell’industria e sul lavoro” ma è anche vero che la gravità del momento è tale da richiedere un azzeramento e riprogettazione di tante situazioni da rendere poco verosimile la possibilità di concentrarsi su un solo tema a discapito di tutti gli altri.
Inoltre le tre cartelle e mezzo firmate da Confindustria e sindacati contengono molte richieste di “sostegno”, “agevolazioni” e “incentivazioni” ma volendo essere un contributo al rilancio dell’economia nazionale in un momento in cui ognuno dovrebbe essere pronto a fare la sua parte, sarebbe stato lecito aspettarsi di trovarci dentro qualcosa di quello che industria e sindacati sono pronti a fare a patto che il governo risolva i problemi da loro indicati.
Per il momento Confindustria e sindacati dicono di aspettarsi “iniziative governative sostanziali, coerenti con le intenzioni più volte dichiarate e utili a rimettere al centro la scommessa della crescita”. Fisco, efficienza della Pubblica Amministrazione e razionalizzazione della spesa pubblica sono le priorità “che andranno declinate attraverso un confronto permanente con le forze sociali, con al centro delle politiche economiche il tema della crescita e dello sviluppo industriale per rilanciare l’occupazione e ridare fiducia al Paese in un quadro di accordo sulle scelte strategiche di medio-lungo periodo”.
E così mentre la diagnosi era già abbastanza nota, gran parte della terapia andrà meglio definita nel tempo attraverso un “confronto permanente con le forze sociali”. Si tratta di una modalità che per quanto riguarda la definizione di adeguate politiche industriali prevede la istituzione di “una cabina di regia nazionale sulla crisi d’impresa che preveda la partecipazione del Governo, di tutte le forze sociali e degli altri soggetti coinvolti (principalmente il sistema delle banche e l’amministrazione fiscale) con il compito di individuare strumenti e soluzioni adeguate alla drammaticità della situazione”. Insomma un po’ “campa cavallo che l’erba cresce”, che non è esattamente l’indicazione di cui ha bisogno in questo momento quello che aspira a essere un Governo di svolta intento a rilanciare urgentemente l’economia italiana.
Nel documento non mancano comunque spunti concreti a fronte di tante richieste e il suo valore principale è senza dubbio quello di essere un documento unitario, di Confindustria e sindacati. Nulla però vi si dice, e nemmeno vi si fa cenno, su quanti e quali investimenti e assunzioni, in quali settori o aree geografiche, ecc. le industrie sarebbero pronte a mettere progressivamente in campo se e quando il Governo riuscisse a risolvere il problema 1), il problema 2), il problema 3) ecc. né si dice quali concessioni i sindacati sarebbero pronti a fare in termini di flessibilità, retribuzioni, previdenza, ecc. mano a mano che il Governo rimuovesse ostacoli o desse nuove garanzie.


Dal sito web di Confindustria

I contenuti del documento
- Fisco
La prima richiesta è quella di “un sistema fiscale efficiente, semplice, trasparente e certo, con poche e stabili scadenze, non ostile all’attività di impresa e alla creazione di lavoro e che non scoraggi le scelte degli investitori”. Di certo non si tratta di un’impresa facile per un Paese che in materia fiscale è abituato a procedere a tentoni, senza una strategia e mettendo una “toppa” dopo l’altra ma in un modo o nell’altro una riforma fiscale a 360° andrà pur iniziata.
In particolare Confindustria e sindacati chiedono: la riduzione del carico fiscale su lavoro e imprese; la riduzione del prelievo sui redditi da lavoro; la eliminazione della componente lavoro dalla base imponibile IRAP; il ripensamento della tassazione dei beni immobili dell’impresa strumentali all’attività produttiva (il Comune di Termoli ha avuto il via libera della commissione regionale del Molise per riscuotere 9 milioni di imposizione sulle piattaforme petrolifere Edison); l’adozione definitiva delle attuali misure sperimentali di detassazione e decontribuzione per l’incremento della produttività del lavoro; la lotta all’evasione fiscale e l’impiego della leva fiscale per il rilancio degli investimenti produttivi.
- Politiche industriali
Oltre alla richiesta della “cabina di regia” nel documento si chiedono: il rafforzamento degli investimenti nell’innovazione; lo sviluppo della “green economy”; la creazione di una nuova finanza pubblica per lo sviluppo; la riduzione del costo dell’energia.
Gli strumenti dovrebbero essere: per l’innovazione, un’agevolazione fiscale stabile e automatica per gli investimenti in ricerca e sviluppo, una strategia nazionale coerente con il progetto comunitario Horizon 2020, una garanzia pubblica per favorire il finanziamento di grandi progetti di innovazione industriale realizzati da filiere e reti di imprese, la rapida attuazione dell’Agenda digitale italiana; per la green economy,  un piano strutturale di sostegno all’efficienza energetica e allo sviluppo delle rinnovabili, un piano nazionale di intervento sulle bonifiche dei siti di interesse nazionale, interventi per il consolidamento e lo sviluppo delle filiere produttive collegate al recupero e al riciclo di materie prime da rifiuti; per la finanza per lo sviluppo, rafforzamento del meccanismo di detassazione degli utili reinvestiti a partire dall’ACE, rafforzamento di meccanismo di accesso al credito, nuovo fondo per la ristrutturazione industriale con la partecipazione della CDP e di altre istituzioni finanziarie per la realizzazione di interventi temporanei nel capitale di rischio di imprese in difficoltà ma con potenzialità di sviluppo; per la riduzione del costo dell’energia, sviluppo delle infrastrutture energetiche e relativa razionalizzazione degli iter autorizzativi in un’ottica nazionale su standard europei, riduzione delle componenti parafiscali delle bollette, consolidamento strutturale della convergenza fra i prezzi del gas italiani e internazionali attraverso lo sbottigliamento delle principali infrastrutture di interconnessione, revisione delle modalità di funzionamento del mercato elettrico coordinando produzione da fonti rinnovabili e termiche convenzionali.
- Revisione assetti istituzionali ed efficienza spesa pubblica
La prima richiesta è quella della modifica del Titolo V della Costituzione riportando in capo allo Stato la competenza, precedentemente trasferita alle Regioni, su materie di interesse generale quali semplificazioni, infrastrutture, energia, comunicazioni e commercio estero, con contemporanea abolizione delle Province e innalzamento della soglia dimensionale dei Comuni.
La seconda, e altrettanto importante richiesta, è quella della revisione della spesa pubblica attraverso l’abbandono del criterio dei tagli lineari e lo svolgimento di un’analisi selettiva che riduca i costi impropri e definisca “costi standard” da adottare rapidamente come metodo di finanziamento delle amministrazioni pubbliche.

lunedì 9 settembre 2013

Per Berlusconi quasi una scelta obbligata

A Berlusconi converrebbe combattere la sua battaglia da privato cittadino esortando i suoi a badare più alla governabilità dell’Italia che alla volontà di rivalsa. Un partito con un unico insostituibile leader somiglia più a una setta che a un partito.

di Achille Nobiloni

Da qualsiasi punto di vista la si guardi questa storia di Berlusconi sembrerebbe dover avere un unico sbocco possibile per il bene dell’Italia e dello stesso Berlusconi e questo sbocco dovrebbe essere un passo indietro da parte dell’interessato.
Da un lato ci sono tre gradi di giudizio che affermano una verità che per alcuni è sostanziale e per altri solo processuale; dall’altro c’è la tesi del complotto secondo la quale questa verità, … solo processuale, sarebbe lo strumento per far fuori il protagonista principale della vita politica italiana degli ultimi venti anni; in mezzo ci sono la questione interpretativa sul se, come e quando sia o non sia lecito usare questo strumento e il diritto alla difesa (a oltranza) dell’imputato/condannato.
In un Paese normale basta l’ombra del sospetto per spingere alle dimissioni, in Italia tre gradi di giudizio possono trasformare il condannato in un martire. Il tutto naturalmente a discapito della certezza del diritto e soprattutto della fiducia nelle Istituzioni.
Del resto con i ribaltoni cui siamo stati abituati nel corso degli anni con numerosi processi “bis”, “ter” e “quater” e decine di sentenze cancellate si capisce anche l’ostinazione di Berlusconi nel voler proclamare a tutti i costi la propria innocenza e nel voler evitare o ridurre il più possibile la pena comminatagli. Ma se è vero che qui la questione non è più solo personale ma anche politico/istituzionale allora i due piani vanno ben distinti e chi pretende di avere più ragione dovrebbe anche essere disposto a usarla.
Può la difesa del singolo avere implicazioni sulla vita di un governo? Può un eventuale provvedimento di grazia servire a garantire “l’agibilità politica”? Può un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo avere lo scopo di un salvataggio politico?
  
Una volta si diceva: “Rassegno le dimissioni per avere la libertà di potermi difendere meglio” e forse è proprio questa la linea che converrebbe di più a Berlusconi. Del resto se in venti anni da politico non è riuscito a dimostrare e sconfiggere il complotto della Magistratura che nel tempo ha sempre lamentato forse la cosa potrebbe riuscirgli meglio da privato cittadino, lontano dalle presunte ritorsioni che le sue cariche politiche gli procuravano!
Inoltre appare singolare che un governo più o meno d’emergenza come l’attuale funzioni e vada più o meno bene se Berlusconi conserva il suo seggio di senatore e debba invece essere destinato a cadere se Berlusconi non siede più in Parlamento. Allo stesso modo un eventuale provvedimento di grazia, o altra soluzione o “garanzia”, può servire a evitare il carcere (o gli arresti domiciliari o i servizi sociali) a chi è stato quattro volte presidente del Consiglio per un totale di nove anni ma non è detto che debba servire a consentirgli di continuare a fare tutto quello che faceva prima come se nulla fosse stato. Così un ricorso alla Corte europea dei diritti “dell’uomo”, non “dei parlamentari”, potrà stabilire se a Silvio Berlusconi siano stati garantiti i suoi diritti di comune mortale e non essere interpretato e vissuto come una denuncia di lesa maestà.
Sbaglierò ma per tutti questi motivi sono convinto che a Berlusconi converrebbe assai di più condurre la propria battaglia da privato cittadino, abbassando i toni della polemica, portando a casa un qualche beneficio di quelli che ormai anche il PD sembra disponibile a concedergli ed esortando i suoi a badare più alla governabilità dell’Italia che alla volontà di rivalsa.
Anche il Pdl o la rinascente Forza Italia non possono infatti continuare a presentarsi con Silvio Berlusconi come unico insostituibile leader: un partito con un unico insostituibile leader somiglia più a una setta che a un partito.